Il fallimento della c.d. “supersocietà di fatto”.

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La recente ordinanza n. 6030, resa dalla sesta Sezione della Corte di Cassazione in data 04.03.2021, ci offre lo spunto per fare il punto della situazione sul mai sopito tema del fallimento della c.d.” supersocietà di fatto”.

  1. La configurabilità della società di fatto (SDF)

Si ricorda quindi che la società di fatto (SDF) è una società costituita per fatti concludenti, senza un’esplicita dichiarazione di volontà in tal senso formalizzata per iscritto. Allorché abbia per oggetto un’attività commerciale, la SDF va considerata società in nome collettivo irregolare, perché non iscritta nel registro delle imprese. Essa è caratterizzata, in via di fatto, dall’esistenza di un fondo comune, con partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati, e dal loro atteggiarsi di fronte ai terzi in modo da ingenerare la percezione di operare quali soci.

La giurisprudenza riconosce da tempo la sua ammissibilità.

Fra le pronunce più recenti si può citare l’ordinanza n. 8981 resa dalla Sezione VI della Corte di Cassazione in data 05.05.2016: “La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l’accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e l’affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell’art. 2297 c.c., l’esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l’idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all’esterno il ragionevole affidamento circa l’esistenza della società”.

  1. La SDF nella procedura fallimentare

Trattandosi di società di persone, il fallimento della SDF è disciplinato dagli artt. 147 e 148 L.F. Se l’esistenza della SDF è individuata (e dimostrata) dal soggetto che ne chiede il fallimento, si procede ai sensi dell’art. 147, I comma, L.F.: “La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”.

Non è un caso che, più di frequente, gli elementi per l’individuazione dell’esistenza della SDF vengano scoperti dal curatore del fallimento di uno dei soci, a seguito dello studio delle vicende che hanno condotto al fallimento dello stesso. In tal caso la legge disciplina soltanto l’ipotesi che il fallimento originario sia quello di un imprenditore individuale, e dispone che sia dichiarato il fallimento della SDF (e di tutti i suoi soci) “qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile” (art. 147, V comma, L.F.).

È da tempo pacifico che il Curatore fallimentare è autonomamente legittimato a proporre l’istanza di estensione del fallimento perché la predetta estensione del fallimento si innesta in una procedura preesistente nella quale il Curatore è l’organo pubblico operativo procedente che va a sostituire la legittimazione del passivo del P.M. (legittimato a chiedere il fallimento ex art. 7 L.F. ma non l’estensione).

Il Curatore è quindi un organo dell’ufficio fallimentare che è pacificamente pubblico ufficiale (art. 30 L.F.) e concorre alla formazione ed alla volontà della Pubblica Amministrazione attraverso i suoi poteri, le istanze e la costante partecipazione agli atti del fallimento (Cass. 20.01.2010 n. 3327).

  1. La SDF e le società di capitali.

Ci si è poi chiesti se la medesima estensione del fallimento alla SDF potesse essere disposta allorché il fallimento originario abbia riguardato una società di persone o di capitali. La risposta a tale domanda deve in via preliminare sciogliere le problematiche che sorgono dall’art. 2361, II comma, c.c., il quale (per le s.p.a.) dispone: “L’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio” (norma cui viene fatto riferimento, anche per le s.r.l., nell’art. 111 duodecies disp. att. c.c. in tema di redazione del bilancio).

Cass. 21.01.2016 n. 1095, con una sentenza molto articolata e ben argomentata, ha riconosciuto che la norma predetta non preclude la partecipazione di una società di capitali a una SDF allorché manchi (come sempre accade, trattandosi di un comportamento di fatto) la deliberazione assembleare di cui alla norma stessa e/o l’informazione nella nota integrativa del bilancio (almeno allorché l’assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell’oggetto sociale). Nel medesimo senso v. Cass. 13.06.2016 n. 12120.

Una volta superato l’ipotetico ostacolo dell’art. 2361, II comma, c.c., deve porsi la questione derivante dal fatto che, come sopra visto, l’art. 147, V comma, L.F., si riferisce al solo caso dell’estensione (alla SDF) del fallimento dell’imprenditore individuale. Anche su tale tema la Corte di Cassazione è intervenuta con la sentenza n. 10507 del 20.05.2016, (oltre che con la già menzionata sentenza n. 12120/2016), che testualmente prevede: “il collegio condivide l’orientamento, maggioritario in dottrina, secondo cui un’interpretazione dell’articolo 147, comma 5 L. Fall., che conducesse all’affermazione dell’applicabilità della norma al solo caso (di fallimento dell’imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 Cost.: invero, una volta ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi della L.F., articolo 147, comma 1, non v’è alcuna ragione che, nell’ipotesi disciplinata dal ridetto 5 comma – in cui l’esistenza della società emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci – possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo. Non può infatti concepirsi diversità di trattamento fra due fattispecie che presentano identità di ratio”.

La Corte di Cassazione ha così chiarito, in punto di diritto, che il fallimento della SDF non è precluso in nessuna ipotesi, irrilevante così diventando (a tal fine) che fra i suoi soci vi siano delle società di capitali.

  1. Gli elementi per l’individuazione della SDF.

In generale è possibile provare l’esistenza di una società di fatto tra due o più soggetti quando nei rapporti interni ricorrono i seguenti elementi (Cass. 05.05.2016 n. 8981; Cass. 15.03.2010 n. 6175; Cass. 11.03.2010 n. 5961; Cass. 22.02.2000 n. 1961): l’esistenza di un fondo comune, la partecipazione ai guadagni ed alle perdite ed il vincolo di collaborazione in vista dell’esercizio dell’attività economica (c.d. affectio societatis).

Più in concreto, la Corte di Appello di Roma (Decreto 04.12.2017) ha ritenuto provata l’esistenza della società di fatto sulla base dei seguenti elementi:

  • alcuni dipendenti erano stati impiegati per attività in favore dell’altra società;
  • le strutture aziendali e gli spazi produttivi erano stati messi in comune tra la società fallita e gli altri soggetti;
  • i patrimoni delle società coinvolte servivano a finanziare l’attività svolta in comune.

Ancor prima Trib. Gela 15.10.2013 aveva ritenuto provata l’esistenza di una società di fatto dai seguenti elementi:

  • sostanziale identità delle compagini sociali;
  • stessa sede operativa;
  • identità dell’oggetto sociale;
  • fondo comune, creato attraverso una vendita non riscossa.
  1. L’insolvenza.

La recente ordinanza n. 6030/2021, richiamata in premessa, riconferma poi il consolidato orientamento secondo il quale, affinché possa essere dichiarato il fallimento della SDF, è necessaria la dimostrazione della sua propria insolvenza. Non si tratta infatti di un fallimento dipendente (come nel caso dei soci illimitatamente responsabili in caso di fallimento della supersocietà) ma autonomo. Conseguentemente, identificato l’imprenditore fallibile in una SDF, la dichiarazione di fallimento non può che conseguire alla sua insolvenza.

La SC precisa infatti che il fallimento della supersocietà costituisce il presupposto logico/giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci. L’indagine del giudice, perciò, dev’essere indirizzata all’accertamento sia dell’esistenza di una società occulta sia della sua insolvenza (Cass. 20.05.2016 n. 10507).

All’accertamento dello stato di insolvenza della SDF può eventualmente giungersi anche muovendo, quale fatto indiziante, dalla rilevazione dell’insolvenza anche di uno o più soci, ma senza automatica traslazione o dogmatico esaurimento della prova richiesta (Cass. 13.06.2016 n. 12120).

 

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