LA CHIUSURA DELLA PROCEDURA DI LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

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La cessazione della procedura di liquidazione giudiziale è disciplinata dagli artt. 233 – 239 del codice della crisi, i quali confermano nella sostanza, con alcune importanti novità, le regole già dettate dagli artt. 118 – 123 L.F.

  1. I casi di chiusura della liquidazione.

I casi di chiusura enumerati dall’art. 233 CCII, corrispondono, con i dovuti aggiustamenti, a quelli previsti dall’art. 118 L.F.

La procedura di liquidazione giudiziale si chiude infatti:

  1. a) se nel termine stabilito nella sentenza con cui è stata dichiarata aperta la procedura non sono state proposte domande di ammissione al passivo;
  2. b) quando, anche prima che sia compiuta la ripartizione finale dell’attivo, le ripartizioni ai creditori raggiungono l’intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione;
  3. c) quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo;
  4. d) quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura. Tale circostanza può essere accertata con la relazione o con i successivi rapporti riepilogativi di cui all’articolo 130.

A onor del vero, come espressamente richiamato in apertura dal citato art. 233, la procedura di liquidazione giudiziale si chiude anche con l’omologazione del concordato previsto dagli artt. 240 e segg. CCII, la cui disciplina non può ovviamente – per evidenti limiti espositivi – essere oggetto della presente trattazione.

Il comma 2 dell’art. 246 prevede infatti espressamente che “quando il decreto di omologazione diventa definitivo, il curatore rende conto della gestione ai sensi dell’articolo 231 e il tribunale dichiara chiusa la procedura di liquidazione giudiziale”.

Tornando ai casi di chiusura previsti dall’art. 233 possiamo affermare che, come già accadeva nella vigenza della legge fallimentare, le quattro ipotesi previste possono essere raggruppate in due categorie: chiusura per mancanza di passivo (originaria nel caso “a”, sopravvenuta nel caso “b”) e chiusura per mancanza di attivo (sopravvenuta nel caso “c”, originaria nel caso “d”).

Le ragioni della chiusura appaiono, nelle due categorie di ipotesi, radicalmente diverse. La mancanza del passivo importa infatti che la liquidazione sia concretamente priva di scopo perché non vi sono, o non vi sono più, crediti da soddisfare, mentre la carenza di attivo rende la liquidazione stessa inidonea a raggiungere lo scopo stesso, ossia la soddisfazione (che è parziale nel caso “c” e inesistente nel caso “d”) dei creditori.

Evidenziamo inoltre che la chiusura della liquidazione è ipotesi distinta dalla sua revoca. Si pensi ad esempio alla chiusura della procedura per mancanza di domande di insinuazione al passivo e alla revoca per difetto del requisito dell’insolvenza all’esito del reclamo ex art. 51.

La Suprema Corte [1] ha osservato che chiusura e revoca costituiscono concetti contenutisticamente diversi, il primo afferendo alla sorte dinamica del processo presupponendo la validità della sua apertura e del suo svolgersi, il secondo invece riguardando la stessa legittimità del titolo di apertura. Per gli stessi motivi, il giudizio sulla legittimità dell’apertura della procedura concorsuale va necessariamente fatto con riferimento all’epoca della sentenza dichiarativa ed eventuali fatti nuovi, idonei a eliminare in epoca successiva l’insolvenza, non incidono sulla legittimità della dichiarazione ma possono legittimare, eventualmente, una successiva e distinta pronuncia di chiusura [2].

 

  1. La mancanza di domane di ammissione al passivo

Anche stavolta è possibile recuperare in questa sede gli esiti del dibattito emerso nella vigenza della legge fallimentare.

È quindi possibile ancora oggi confermare che la chiusura della liquidazione può essere dichiarata nel caso in cui non sia stata presentata alcuna domanda tempestiva, a nulla rilevando la presentazione di domande tardive. D’altro canto, la presentazione nei termini anche di una sola domanda tempestiva impedisce di fatto la chiusura [3].

È in ogni caso evidente che laddove la domanda tardiva sia stata accolta, ed essendosi per questo motivo formato lo stato passivo, non sarà possibile parlare di “mancanza di passivo” anche nell’eventualità in cui tutte le tempestive dovessero essere ritirate. Chiaramente deve parlarsi di domanda “accolta”, non essendo sufficiente al proposito la mera presentazione [4].

Deve ritenersi poi che non osti alla chiusura della procedura la pendenza di domande di rivendicazione o restituzione, né l’esistenza di creditori “non concorsuali” (ad es. creditori prededucibili). È stato invece affermato [5] che la chiusura della procedura non può prescindere dal pagamento di tutti i debiti della massa e delle spese della procedura, compreso il compenso al curatore. In caso contrario, infatti, la procedura dovrà continuare per assicurare il pagamento di queste spese.

È agevole intuire che l’assenza di passivo rende la procedura liquidatoria, per quanto concorsuale, del tutto priva di scopo. Per questo motivo alla mancata presentazione di domande di insinuazione devono equipararsi alcune fattispecie analoghe quali il ritiro o il rigetto delle domande presentate [6].

In particolare, per quel che riguarda il rigetto, è evidente che lo stesso debba essere definitivo. Occorre quindi che sia scaduto il termine per presentare opposizione allo stato passivo o che l’opposizione stessa sia rigettata.

 

  1. L’estinzione dei crediti verso la massa.

Perché questa ipotesi sia integrata è richiesta la totale estinzione dei crediti ammessi e di quelli prededucibili, senza che rilevi in alcun modo la modalità con la quale l’estinzione si sia verificata.

L’art. 233, come prima l’art. 118 L.F., parla infatti espressamente di “crediti ammessi” e questo riferimento è denso di implicazioni:

  • una volta estinti i crediti ammessi, l’eventuale pendenza di domande tardive non impedisce la chiusura della procedura [7];
  • rientrano tra i crediti ammessi anche quelli “ammessi con riserva” (art. 204 comma 2 CCII), che debbono essere anch’essi integralmente pagati o estinti. Sul piano pratico è stato correttamente osservato [8] che per i crediti sottoposti a condizione sospensiva appare sufficiente la costituzione di un apposito accantonamento, mentre per quelli sottoposti a condizione risolutiva è necessario il pagamento (salvo ovviamente il diritto alla ripetizione in caso di avveramento della condizione).

Resta da valutare la sorte delle eventuali opposizioni allo stato passivo che siano pendenti al momento in cui tutti i crediti ammessi risultino estinti. Sembra opportuno ritenere che in questi casi la chiusura sia impedita, risultando in caso contrario irrimediabilmente pregiudicata la posizione di chi abbia intrapreso un giudizio di opposizione, eventualmente fondato, e si trovi impossibilitato a ricevere tutela nel caso di chiusura anticipata.

 

  1. La ripartizione finale dell’attivo.

Statisticamente, l’ipotesi più probabile è la chiusura della procedura concorsuale in esito all’esaurimento del procedimento di ripartizione dell’attivo di cui all’art. 232 CCII. Naturalmente, affinché non si ricada nell’ipotesi precedente, occorre che la ripartizione non porti all’estinzione integrale dei crediti ammessi.

Anche nel Codice della Crisi, per espressa previsione dell’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 232, “gli accantonamenti non impediscono la chiusura della procedura”. Le eventuali somme ancora non distribuite verranno accantonate nei modi stabiliti dal Giudice Delegato perché, verificatisi gli eventi che hanno determinato l’ammissione dei crediti con riserva, possa essere versata ai creditori cui spetta o fatta oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori.

Sempre in virtù di quanto prevede la disposizione citata, dovranno essere invece distribuiti “gli accantonamenti precedentemente fatti”. Tra questi possono sicuramente essere annoverati gli accantonamenti per l’ammissione del credito ammesso con riserva per mancata produzione del titolo. In questo caso, pertanto, la riserva non potrà sciogliersi successivamente alla chiusura della procedura e sarà necessario attendere la scadenza del termine concesso al creditore dal Giudice Delegato, scadenza decorsa la quale la riserva potrà sciogliersi “positivamente” (con conseguente distribuzione della somma accantonata a favore del creditore) oppure “negativamente” (con riparto della somma stessa tra gli altri creditori).

Non diverge dalla legge fallimentare neppure l’ipotesi della pendenza di impugnazioni avverso i provvedimenti di accertamento del passivo. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 232 e 227 CCII, che riproducono pedissequamente gli artt. 113 e 117 L.F., apprendiamo che l’esistenza dei gravami impedisce la chiusura della procedura solo nell’eventualità in cui gli stessi impongano al curatore accantonamenti in favore dei creditori.

Detta ipotesi si verifica però, secondo quanto espressamente previsto dal citato art. 227, solo nelle seguenti eventualità:

  1. a) creditori ammessi con riserva;
  2. b) creditori opponenti a favore dei quali sono state disposte misure cautelari;
  3. c) creditori opponenti la cui domanda è stata accolta quando la sentenza non è passata in giudicato;
  4. d) creditori nei cui confronti sono stati proposti i giudizi di impugnazione e di revocazione.

Con espresso riferimento ai giudizi impugnatori (eccettuati i casi di impugnazione e revocazione promossi contro l’ammissione di crediti), pertanto, ostano alla ripartizione finale e quindi alla chiusura della procedura, i casi nei quali siano state disposte misure cautelari a favore dell’opponente o nei quali sia stato emesso dal Tribunale un provvedimento di accoglimento non ancora divenuto definitivo.

Andando a esclusione, non osteranno invece al riparto finale e alla chiusura i giudizi di impugnazione nei quali non siano state concesse misure cautelari né sia stata accolta la domanda con pronuncia non ancora passata in giudicato.

Sul punto si è già espressa la Suprema Corte [9] nel dichiarare, con argomentazioni spendibili anche nella vigenza del Codice della Crisi, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 117 e 118 L.F., per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevedevano accantonamenti nel riparto finale a favore dei creditori opponenti allo stato passivo. Gli ermellini hanno infatti osservato che tali norme non pregiudicano il diritto di difesa dell’opponente, il quale può far valere la propria pretesa in contraddittorio con il curatore, e che non appare irragionevole la scelta operata dal legislatore, nel conflitto di interessi dei creditori ammessi e quelli non ammessi, di rendere prioritaria la tutela dei primi in considerazione della loro posizione di creditori concorrenti derivante dal provvedimento di ammissione al passivo [10].

Può ritenersi invece impeditiva della chiusura la pendenza di domande di accertamento di crediti prededucibili contestati, che debbono essere pagati con precedenza rispetto ai crediti concorrenti. Viceversa, la chiusura non sarà di regola ostacolata dalle domande di rivendicazione o restituzione, salvo che il ricorrente abbia modificato l’originaria domanda e chiesto l’ammissione al passivo del controvalore del bene.

 

  1. Insufficienza dell’attivo.

La liquidazione giudiziale dev’essere infine chiusa quando le attività recuperate o recuperabili non siano neppure sufficienti a soddisfare i creditori prededucibili o a coprire le spese di procedura. In questo caso, è evidente, la prosecuzione della procedura stessa sarebbe non solo inutile ma addirittura dannosa in quanto necessiterebbe di attività che non sarebbe solo infruttuosa ma anche non “pagabile”.

Salta subito all’occhio la distinzione con la possibilità, confermata anche oggi dall’art. 209 CCII, che non si dia luogo al procedimento di accertamento del passivo dei crediti concorsuali in caso di previsione di insufficiente realizzo. In questo caso, infatti, la realizzazione di un minimo di attivo è ritenuta possibile, ma solo per il pagamento (anche parziale) delle spese e dei prededucibili.

Anche in sede di riforma si prevede che l’insufficienza dell’attivo possa essere accertata con la relazione del curatore prevista dall’art. 130 o con i successivi rapporti riepilogativi. Ovviamente, come noto, nella suddetta relazione il curatore compie solo un accertamento discrezionale sulle effettive possibilità di realizzo, mentre la decisione sulla chiusura non può che essere competenza del Tribunale.

L’accertamento del passivo può ritenersi soltanto eventuale. Infatti, nel caso in cui appaia manifesta la mancanza di attivo, si tratterebbe di un adempimento del tutto privo di utilità. Invece, laddove l’incapienza sia accertata solo dopo la formazione dello stato passivo, l’eventuale pendenza di giudizi di impugnazione o di domande tardive non potrà mai ostacolare la chiusura della procedura perché qualunque credito, accertato o meno, non potrà comunque essere soddisfatto

 

  1. Il procedimento di chiusura.

Prima di occuparci del procedimento vero e proprio, è opportuno dare atto di un’importante novità introdotta dal Codice della Crisi, Il secondo comma dell’art. 233 prevede infatti che nel caso di chiusura della procedura di liquidazione giudiziale di una società di capitali nei casi previsti dalle lettere a) e b) sopra esaminate (mancanza di passivo originaria o sopravvenuta), il curatore è chiamato a convocare l’assemblea ordinaria dei soci [11] per le deliberazioni necessarie ai fini della ripresa dell’attività o della sua cessazione ovvero per la trattazione di argomenti sollecitati, con richiesta scritta, da un numero di soci che rappresenti il venti per cento del capitale sociale.

La ratio della nuova previsione è evidente. Infatti, nel caso in cui venga accertata l’assenza di passivo, e anche nell’ottica di favorire la continuità aziendale, non vi sono motivi per sottrarre ai soci la possibilità di rimuovere lo stato di insolvenza e di proseguire nell’esercizio dell’impresa. Tra l’altro, la chiusura della procedura di una società per mancanza di passivo comporta la chiusura della procedura estesa ai soci ai sensi dell’art. 256 CCII.

Nei casi previsti dalle lettere c) e d), e quindi nei casi – statisticamente più probabili – di carenza di attivo, ove si tratti di liquidazione di una società e fatto salvo quanto previsto dal comma 6 dell’art. 234 in caso di giudizi ancora pendenti, il curatore chiederà invece la cancellazione della società.

Anche dopo la riforma la chiusura della procedura è disposta con decreto, da pubblicarsi nelle forme prescritte dall’art. 45, del Tribunale su istanza del curatore, del debitore ovvero di ufficio. L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 235 CCII prevede però che il curatore, unitamente all’istanza di chiusura, depositi un rapporto riepilogativo finale redatto in conformità a quanto previsto dall’art. 130 comma 9.

Tra i soggetti legittimati continuano a non essere previsti i creditori, i quali possono naturalmente sollecitare l’iniziativa del curatore o dell’ufficio.

Il procedimento ricalca, con i dovuti aggiustamenti, quello previsto dall’art. 119 L.F. per la chiusura della procedura di fallimento.

Contro il decreto che dichiara la chiusura o ne respinge la richiesta, infatti, è ammesso reclamo a norma dell’articolo 124. Contro il decreto della Corte di Appello è ammesso ricorso per Cassazione da proporsi nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente: i) dalla notificazione o comunicazione del provvedimento per il curatore, per il debitore, per il comitato dei creditori e per chi ha proposto il reclamo o è intervenuto nel procedimento; ii) dal compimento della pubblicità di cui all’articolo 45 per ogni altro interessato.

Per l’effetto il decreto di chiusura acquista efficacia quando è decorso il termine per il reclamo, senza che questo sia stato proposto, ovvero quando il reclamo è definitivamente rigettato.

Con i decreti emessi ai sensi dei commi 1 e 3, infine, sono impartite le disposizioni esecutive volte ad attuare gli effetti della decisione. Allo stesso modo si provvede a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di revoca della procedura di liquidazione giudiziale o della definitività del decreto di omologazione del concordato proposto nel corso della procedura stessa.

 

  1. Gli effetti della chiusura.

Anche gli effetti della chiusura della liquidazione giudiziale, disciplinati dall’art. 236 CCII, non differiscono sensibilmente da quelli previsti dall’art. 120 L.F.

Con la chiusura della procedura pertanto.

  • cessano gli effetti della procedura nei confronti del debitore e quindi: i) cessa lo spossessamento di cui all’art. 142, con conseguente diritto del debitore alla restituzione del patrimonio residuo; ii) cessano gli effetti sui rapporti processuali previsti dall’art. 143 e il debitore riacquista la legittimazione anche per i giudizi in corso [12]; iii) vengono meno gli obblighi e le limitazioni previste dagli artt. 148 e 149;
  • decadono gli organi della procedura, salve le ipotesi di prorogatio previste dalla legge come quella espressamente prevista dal comma 5 dell’art. 236 in caso di chiusura della liquidazione in pendenza di giudizi;
  • i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti, salvo quanto previsto dagli artt. 278 e seguenti per il caso di esdebitazione. A tale scopo il decreto o la sentenza con il quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta nel giudizio monitorio anche se, come correttamente osservato [13], le statuizioni rese in sede di verifica dello stato passivo hanno un’efficacia meramente endoconcorsuale e non rilevano nel rapporto diretto tra creditore e debitore a seguito della chiusura della procedura.

 

  1. La chiusura in pendenza di giudizi.

A differenza della legge fallimentare, che inseriva la disciplina della chiusura in pendenza di giudizi all’interno della norma generale di cui all’art. 118 L.F., il Codice della Crisi riserva per la regolamentazione di questa ipotesi un’autonoma disposizione, l’art. 234 CCII.

In attuazione della delega, il secondo periodo del primo comma dell’art. 234 precisa che “la legittimazione del curatore sussiste altresì per i procedimenti, compresi quelli cautelari e esecutivi, strumentali all’attuazione delle decisioni favorevoli alla liquidazione giudiziale, anche se instaurati dopo la chiusura della procedura”.

Il comma 6 della citata disposizione rimanda poi al decreto di chiusura per la disciplina delle disposizioni necessarie per il deposito del rapporto riepilogativo di cui all’articolo 130, comma 9, di un supplemento di rendiconto, del riparto supplementare e del rapporto riepilogativo finale. Si prevede inoltre espressamente che la chiusura della procedura non comporta la cancellazione della società dal registro delle imprese sino alla conclusione dei giudizi in corso e alla effettuazione dei riparti supplementari, anche all’esito delle ulteriori attività liquidatorie che si siano rese necessarie.

Una volta eseguito l’ultimo riparto o comunque definiti i giudizi pendenti, il curatore deve chiedere al Tribunale di archiviare la procedura di liquidazione giudiziale e il Tribunale provvede con decreto. Entro dieci giorni dal deposito del decreto di archiviazione, quindi, il curatore chiede la cancellazione della società dal registro delle imprese ovvero, quando le ripartizioni ai creditori raggiungono l’intero ammontare dei crediti ammessi, o questi sono in altro modo estinti e sono pagati tutti i debiti e le spese da soddisfare in prededuzione, procede ai sensi dell’articolo 233, comma 2, primo periodo (ossia con la convocazione dell’assemblea ordinaria della società di capitali).

Il resto della disciplina non è dissimile da quella già dettata dalla legge fallimentare  [14]. La chiusura della procedura per “ripartizione finale dell’attivo” non è quindi impedita dalla presenza di giudizi pendenti.

Per “giudizi pendenti”, ai fini dell’applicazione della norma, possono intendersi [15]:

  • le liti attive aventi a oggetto somme di denaro, nelle quali il curatore, in sostituzione del fallito, richiede il riconoscimento di un diritto o di una pretesa nei confronti di un terzo;
  • le liti concernenti azioni di massa, nelle quali il curatore gode di una legittimazione propria o sostitutiva dei creditori.

La norma conferma quindi, come nella vigenza della legge fallimentare, la deroga al principio generale di cui al già citato art. 236 comma 2 CCII, che sancisce l’improcedibilità delle azioni del curatore a seguito della chiusura della procedura.

 

  1. Casi di riapertura ed effetti.

Le disposizioni di cui agli artt. 237, 238 e 239 CCII riproducono, con i dovuti aggiustamenti, gli artt. 121 – 123 L.F. [16]

Salva l’ipotesi di esdebitazione, quindi, la procedura può essere riaperta entro cinque anni, su istanza del debitore o di uno dei creditori, quando risulti che nel patrimonio del debitore esistono attività in misura tale da rendere utile il provvedimento.

In questo caso il Tribunale, con sentenza resa in camera di consiglio, richiama in ufficio curatore e GD (o li nomina di nuovo) e riapre la verifica dello stato passivo.

A norma dell’art. 238, i creditori concorrono alle nuove ripartizioni per le somme loro dovute al momento della riapertura, dedotto quanto hanno percepito nelle precedenti ripartizioni, salve in ogni caso le cause legittime di prelazione.

Infine, come espressamente previsto dall’art. 239, in caso di riapertura della procedura di liquidazione giudiziale, per le azioni revocatorie relative agli atti del debitore, compiuti dopo la chiusura della procedura, i termini stabiliti dagli articoli 164, 166 e 167 per gli atti pregiudizievoli ai creditori sono computati dalla data della sentenza di riapertura. Sono privi di effetto nei confronti dei creditori gli atti a titolo gratuito e quelli di cui all’articolo 169 (atti tra coniugi), posteriori alla chiusura e anteriori alla riapertura della procedura.

 

Avv. Simone Giugni

[1] Cass. 03.09.2014 n. 18596

[2] Trib. Milano 20.10.2004

[3] CAMPIONE L., Chiusura del fallimento, Il fallimentarista, 11.12.2019

[4] Cass. 28.08.1998 n. 8575

[5] Trib. Roma 18.09.1997

[6] Trib. Milano 20.10.2004

[7] Cass. 07.12.2007 n. 25624

[8] CAMPIONE L., Op. Cit.

[9] Cass. 27.04.1998 n. 4259

[10] Così ancora CAMPIONE L., Op. Cit.

[11] E ciò anche se in realtà nella vigente disciplina delle società a responsabilità limitata non è prevista una vera e propria distinzione tra assemblea ordinaria e straordinaria

[12] Anche se le azioni esperite dal curatore per l’esercizio di diritti derivanti dalla procedura (es. l’azione revocatoria concorsuale) divengono improcedibili per espressa previsione del comma 2 dell’art. 236

[13] CAMPIONE L., Op. Cit.

[14] Con alcune differenze lessicali di potenziale rilevanza, come la previsione del fatto che oggi il curatore “mantiene” la legittimazione processuale mentre prima “poteva mantenerla”

[15] CAMPIONE L., Op. Cit.

[16] Pur scomparendo, significativamente, la possibilità di riaprire la procedura quando il “fallito” offra garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e nuovi (art. 121 comma 1, ultimo periodo, L.F.).

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