1

Continuità aziendale: prevalenza continuativa e qualitativa nel concordato preventivo

La questione che poniamo oggi all’attenzione del lettore è di evidente rilevanza pratica, soprattutto dopo che la riforma della legge fallimentare del 2005 [1] ha tolto ogni vincolo ai contenuti della proposta di concordato preventivo e superato la tradizionale dicotomia tra concordato con cessione dei beni e con garanzia.

Con la successiva novella del 2012 [2] è stato inoltre introdotto l’art. 186 bis L.F., che ha ufficializzato l’introduzione nel nostro sistema del concordato in continuità aziendale, espressione del favor del legislatore verso quelle procedure di ristrutturazione del debito che prevedano la prosecuzione dell’attività di impresa a tutela del mercato, della conservazione dei posti di lavoro e del ceto creditorio.

Non può essere fatto mistero che, dal punto di vista pratico, la presentazione delle domande di concordato in continuità è stato ostacolato sia dai maggiori vincoli imposti dall’art. 186 bis L.F. a piano e attestazione che, soprattutto, dall’orientamento giurisprudenziale prevalente che vedeva (e vede tuttora) come vincolante la percentuale di soddisfazione offerta ai creditori [3].

Col passare degli anni però il legislatore, forse scoraggiato da alcuni evidenti tentativi di abuso dello strumento concordatario tramite la presentazione di proposte di cessio bonorum palesemente inconsistenti, ha iniziato a introdurre vincoli sempre più stringenti alle proposte liquidatorie, sino a giungere nel 2015 [4] a inserire un nuovo quinto comma all’art. 160 L.F. per stabilire espressamente che “in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis”.

La diffidenza per le soluzioni liquidatorie è poi culminata con l’approvazione del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza [5], il cui art. 84 obbliga chi intende proporre un concordato liquidatorio a prevedere l’apporto di risorse esterne atte a incrementare di almeno il dieci per cento, rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari, e ad assicurare in ogni caso una percentuale di soddisfazione dei creditori chirografari non inferiore al venti per cento.

Si tratta di limiti assai stringenti che hanno progressivamente spinto gli operatori a verificare se esistessero i presupposti per coltivare proposte di concordato con continuità aziendale. A onor del vero va dato atto che il recente D.L. 24 agosto 2021 n. 118, in corso di conversione, sembra aver restituito dignità alle procedure liquidatorie e gettato più di un dubbio sull’effettiva entrata in vigore del Codice della Crisi, ma si tratta di argomenti estranei alla presente trattazione.

La distinzione tra le due figure di concordato, liquidatorio e in continuità, è manifesta già per quanto riguarda i requisiti per la redazione del piano.

Solo per il concordato con cessio bonorum, infatti, è previsto come già detto l’obbligo di assicurare una soddisfazione percentuale pari al 20% per i creditori falcidiati. L’art. 186 bis L.F., invece, per il concordato in continuità, stabilisce che “a) il piano di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e), deve contenere anche un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura; b) la relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma, deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; c) il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall’articolo 160, secondo comma, una moratoria fino a un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto”.

Analoghe differenze si riscontrano poi nella fase di esecuzione, una volta che il concordato sia stato omologato. L’art. 182 L.F. prevede infatti, per il solo concordato liquidatorio, l’obbligo di nomina del liquidatore giudiziale e il rinvio alla disciplina della competitività ”fallimentare” di cui agli “articoli da 105 a 108-ter in quanto compatibili”.

Tornando all’argomento che qui interessa si ricorda che, ancora una volta per il concordato in continuità, l’art. 186 bis L.F. dispone espressamente che, oltre alla prosecuzione dell’attività, il piano possa prevedere “anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa”. Ciò ha indotto, nella prassi, a parlare spesso di “concordato misto” proprio per individuare un concordato di contenuto complesso il cui piano preveda, accanto a una continuazione dell’attività d’impresa, una liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio della stessa [6].

In realtà la Corte di cassazione, nell’ordinanza n. 734 resa dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione il 15.01.2020 (Pres. Didone; Rel. Pazzi), sulla quale torneremo più ampiamente in seguito, ha escluso recisamente che si possa parlare di concordato misto come tertium genus rispetto al concordato liquidatorio e a quello in continuità aziendale. Queste ultime debbono infatti ritenersi le uniche due figure normativamente disciplinate, con la conseguenza che – nell’ipotesi in cui la prosecuzione dell’attività coesista con la liquidazione di alcuni beni – dovrà essere individuata la disciplina applicabile.

È vero infatti che nell’ipotesi di contemporanea presenza di componenti liquidatori e non continuità, potrà essere invocata l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in materia di contratto misto [7], con conseguente prospettazione [8] di due criteri risolutori: quello della prevalenza o dell’assorbimento [9] e quello della combinazione [10].

Si tratta in effetti dei criteri che sono stati applicati dalla giurisprudenza di merito per la scelta della disciplina applicabile al concordato c.d. “misto”, seppure – come abbiamo appena visto – detta terminologia può essere utilizzata solo in termini descrittivi ma non per identificare un tertium genus di concordato.

Gran parte delle pronunce che si sono occupate della questione [11] hanno invero applicato un criterio di prevalenza meramente “quantitativo”, optando per l’applicazione della disciplina del concordato in continuità o di quella con cessio bonorum a seconda che la parte preponderante dell’attivo da destinare ai creditori derivasse dalla prosecuzione dell’attività o dalla dismissione di beni. Si tratta di un criterio adottato anche dal comma 3 dell’art. 84 del Codice della Crisi, ai sensi del quale “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta”.

In limitati casi [12], invece, le Sezioni Fallimentari si sono espresse per la necessità di combinare entrambe le discipline.

La questione, di non facile soluzione come dimostra l’ampio dibattito giurisprudenziale sopra richiamato, è stata infine affrontata e risolta in sede di legittimità dalla già citata ordinanza della Prima Sezione n. 734 del 15.01.2020.

La Suprema Corte, pur ricostruendo il rapporto tra l’art. 160 e l’art. 186 bis L.F. in termini di regola generale/regola speciale [13] si risolve, dopo aver ricordato che la continuità aziendale dev’essere in ogni caso finalizzata al miglior interesse dei creditori, ad applicare il principio di prevalenza ma costruendone la nozione in termini qualitativi e non quantitativi, riferendosi espressamente a una “clausola elastica, fondata su un criterio qualitativo piuttosto che quantitativo, che investe una parte dei beni aziendali”.

Gli ermellini ricordano infatti che, nel particolare tipo di concordato in continuità, la funzionalità dei beni non destinati alla liquidazione deve essere intesa in senso imprenditoriale e, quindi, i beni rimasti nel patrimonio dell’impresa debbono consentire la prosecuzione dell’attività in vista della migliore tutela del ceto creditorio.

Ciò comporta, pertanto, che “il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dall’art. 186-bis legge fall., che al primo comma espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori”.

La decisione della Corte ha l’indubbio pregio di fare chiarezza sul perimetro di applicazione del criterio di prevalenza. Non di meno la particolarità della disciplina concordataria, indubbiamente legata alle peculiarità del caso concreto, ha aperto la strada a interventi interpretativi da parte della più recente giurisprudenza di merito.

Il recente decreto 08.03.2021 del Tribunale di Ravenna ha infatti sottolineato come la continuità aziendale, nella sua componente qualitativa, non possa essere “irrisoria”. Possono quindi essere ritenuti in continuità anche quei concordati nei quali prevalga, quantitativamente, la componente liquidatoria ma a condizione che la prosecuzione dell’attività si risolva in un quid pluris a vantaggio dei creditori dovuto ai maggiori flussi che la continuità può assicurare.

Il Tribunale di Bergamo, con il decreto del 14.07.2021, ha poi invocato una lettura dell’art. 186 bis L.F. che coniughi la lettera della prima parte con i commi successivi, stabilendo come la liquidazione possa riguardare solo i beni non funzionali alla prosecuzione dell’attività e come il favor del legislatore per la continuità di impresa debba sempre corrispondere al miglior soddisfacimento dei creditori, da intendersi ormai eretto a “clausola generale” in materia concordataria.

Proprio quest’ultimo assunto appare a chi scrive degno della massima condivisione.

È evidente infatti che, a scapito di eccessivi formalismi o rigidità, il faro che deve guidare gli organi della procedura nella valutazione della bontà delle varie proposte di concordato non possa che essere la loro idoneità ad assicurare al ceto creditorio una soddisfazione maggiore rispetto all’alternativa fallimentare. Allo stesso modo, una siffatta valutazione non potrà che portare, con giudizio ex ante, a scongiurare eventuali e non graditi abusi dello strumento concordatario.

 

Simone Giugni – Avvocato in Pisa

 

 

 

[1] D.L. 14 marzo 2005 n. 35, conv. con mod. in L. 14 maggio 2005 n. 80

[2] Art. 33 D.L. 22 giugno 2012 n. 83, conv. con mod. in L. 7 agosto 2012 n. 134

[3] Trib. Prato 12.11.2018; T. Roma 14.04.2016; App. Roma 23.05.2016. Contra App. Bologna 29.09.2017

[4] Con l’art. 4 lett. a) D.L. 27 giugno 2015, conv. con mod. in L. 6 agosto 2015 n. 132

[5] D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14

[6] MAROTTA F., Il concordato misto: prevalenza qualitativa o quantitativa? La soluzione legislativa e gli (opposti) accertamenti giurisprudenziali, in www.ilcaso.it

[7] BIANCA C.M., Il contratto, Milano, 2019, 434; Cass. 22.06.2005 n. 13999

[8] BROGI R., Concordato con continuità e liquidazione dei beni: prevalenza qualitativa, prevalenza quantitativa o combinazione?, in Fall., 2020, 480

[9] Cass. 17.10.2019 n. 26485

[10] BIANCA C.M., op. cit., 435

[11] Trib. Milano 28.11.2019; Trib. Ravenna 15.01.2018; Trib. Monza 26.07.2016; Trib. Prato 30.11.2018

[12] Trib. Firenze 02.11.2016; Trib. Como 27.02.2018

[13] BROGI R, op. cit., 485